Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi metallici della tavola periodica, scoperti tra la fine del 1700 e gli inizi del 1900. Questo gruppo di elementi è caratterizzato dal fatto che al variare del numero atomico, le proprietà chimiche rimangono sostanzialmente identiche. Questo è dovuto al fatto che eventuali elettroni aggiuntivi vanno a completare gli strati più interni, non andando a modificare lo strato di valenza.
Le loro peculiari proprietà li rendono materiali essenziali per le industrie più innovative, dalla produzione di smartphone, chip e altri dispositivi elettronici fino ai veicoli ibridi ed elettrici e ad applicazioni militari.
Nonostante il nome, le terre rare sono in realtà presenti in abbondanza sulla terra. Per esempio, il cerio è più abbondante del rame, mentre il più raro del gruppo, il tulio, è comunque più abbondante del cadmio. Tuttavia, la loro rara concentrazione in minerali, fa si che siano difficilmente estraibili e che i giacimenti siano molto rari.
Le terre rare venivano prodotte nel 1993 per il 38% dalla Cina, 33% dagli Stati Uniti, 12 % dall’Australia ed il restante divise tra altri paesi come per esempio India, Malesia e Brasile. Già nel 2008 tuttavia, la Cina produceva più del 90% del fabbisogno mondiale, per poi arrivare al 97% nel 2011. Questo monopolio della produzione divenne un problema nel momento in cui il governo cinese iniziò a limitare la quantità di terre rare esportabili agli altri paesi. Le restrizioni causarono, e causano tuttora, un aumento dei prezzi vertiginoso con un evidente vantaggio economico per le aziende cinesi non soggette a questi vincoli.
Sebbene come detto, tali terre rare siano effettivamente diffuse anche in altri paesi, in particolare Brasile, Russia, Australia e Vietnam, i costi di estrazione sono talmente alti da non giustificarne l’estrazione su larga scala, a meno che, come in Cina, i costi della manodopera siano estremamente bassi e sostenuti da incentivi statali. In quest’ottica appare chiara la strategia in primis geopolitica e poi economica della Cina, che mira a superare la concorrenza tecnologica statunitense, giapponese e coreana, e ad ottenere una posizione dominante di mercato. Pechino può inoltre utilizzare la posizione monopolistica per far leva sui paesi importatori di terre rare, risolvendo le più disparate controversie politiche ed economiche.
Nell’ultimo periodo, tuttavia, sono emerse nuove prospettive per l’estrazione delle terre rare. In particolare, un team di ricerca giapponese ha scoperto un’area sottomarina a sud-est del Giappone che si stima possa contenere un’ingente quantità di terre rare, capace di soddisfare la domanda globale per molti anni a venire, se vi saranno le possibilità di sfruttarla.
Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, sta rivelando una grande quantità di risorse, prima non sfruttabili, in Groenlandia. Sull’isola, che ricordiamo essere parte della Danimarca, è presente uno dei più grandi giacimenti mondiali di uranio e terre rare, nonché petrolio, gas naturale, carbone e diamanti. Non c’è quindi da stupirsi se nel 2019 gli Stati Uniti, ad opera del loro presidente Donald Trump, hanno proposto alla Danimarca l’acquisto dell’isola. Possedere giacimenti così importanti sarebbe infatti di grande importanza strategica per gli Stati Uniti, che riuscirebbero a rendersi indipendenti dalle importazioni Cinesi.
Nonostante i recenti sviluppi tecnologici e le scoperte minerarie, appare improbabile che la posizione dominante della Cina nella fornitura delle terre rare venga scalfita. Ciò è dovuto al fatto che il vantaggio di costo che essa offre è al momento impareggiato e non giustifica gli investimenti in strutture estrattive che si renderebbero necessari per rivaleggiarla. Inoltre, se un altro investitore (pubblico o privato) decidesse di farle concorrenza, la discriminazione dei prezzi del mercato attuabile dalla Cina lo manderebbe presto fuori mercato facendolo fallire.
Articolo a cura di Saverio Bianco