Femminicidio, una nuova legge può davvero fermare la violenza?

Aggressione ad una donna (Pixabay FOTO) - www.managementcue.it
Da anni si parla di come fermare i femminicidi, ma i numeri restano allarmanti. L’ultima proposta di legge sarà davvero la soluzione?
Se ne parla da anni, ma il problema resta drammaticamente attuale. Le donne continuano a morire, uccise da compagni, ex mariti, familiari. Storie che si ripetono con una ciclicità spaventosa, titoli di giornale che sembrano fotocopie. Non si tratta solo di omicidi: sono femminicidi, delitti che affondano le radici nella cultura del possesso, nel rifiuto di accettare che una donna libera possa dire no.
Le leggi per contrastare la violenza di genere ci sono già. Il Codice Rosso, per esempio, ha accelerato i procedimenti per chi denuncia maltrattamenti e stalking. Ma non basta. Gli abusi continuano, le richieste d’aiuto spesso restano inascoltate e, troppo spesso, le donne vengono uccise anche dopo aver denunciato.
La novità più importante è che il femminicidio diventerà un reato a sé stante, con una definizione chiara: si tratta dell’omicidio di una donna per motivi legati al genere, cioè per odio, discriminazione o per impedirle di vivere liberamente la propria vita.
Ma non è l’unico punto del disegno di legge. Il Governo ha deciso di inasprire le regole per chi è condannato per reati legati alla violenza sulle donne. Chi ha ucciso, picchiato o perseguitato una donna avrà meno possibilità di accedere a misure alternative al carcere. Meno sconti, meno benefici. Inoltre, verrà introdotta una misura per proteggere i familiari delle vittime: se l’aggressore viene scarcerato, evade o cambia regime detentivo, i parenti della donna uccisa verranno avvisati. Una tutela che sembra scontata, ma che finora non era garantita.
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Femminicidio, serve davvero un nuovo reato?
Qui la questione si complica. Creare un nuovo reato cambierà qualcosa nella pratica? O è solo un modo per dare un nome più specifico a qualcosa che il nostro codice penale già punisce con l’ergastolo? Molti ritengono che sia comunque un passo avanti. Riconoscere che il femminicidio non è un omicidio qualunque significa ammettere che c’è un problema sociale e culturale dietro a questi delitti. Dare un nome a qualcosa aiuta a combatterlo.
D’altra parte, alcuni esperti di diritto sottolineano che il problema non è tanto nelle leggi, quanto nella loro applicazione. Quante donne hanno denunciato, chiesto aiuto, ottenuto un ordine restrittivo e poi sono state uccise lo stesso? Il nodo è tutto lì: non basta punire chi uccide, bisogna riuscire a fermarlo prima.
Come affrontano il problema gli altri paesi?
L’Italia non è il primo paese a interrogarsi su come contrastare il femminicidio dal punto di vista giuridico. La Spagna, per esempio, ha scelto una strada diversa: non ha un reato specifico, ma ha varato leggi molto rigide per proteggere le donne in pericolo. E i dati mostrano che questa strategia funziona.
Altri paesi europei, come Croazia, Cipro e Malta, hanno invece introdotto il femminicidio come un’aggravante dell’omicidio. Questo significa che, se il delitto è stato commesso per motivi di genere, la pena sarà più severa.
Il Belgio ha fatto un passo ancora più grande, definendo quattro tipi diversi di femminicidio: quello commesso dal partner, quello perpetrato da sconosciuti, quello che deriva da altre forme di violenza e l’omicidio di genere, che include anche le vittime transgender. Dunque l’Italia punta a diventare il primo paese europeo ad avere il reato autonomo di femminicidio. Un primato che potrebbe avere conseguenze anche in altri ordinamenti giuridici.
Femminicidio, punire basta o serve altro?
Qui arriva il vero nodo della questione. Punire chi uccide è sacrosanto, ma serve davvero a fermare i femminicidi? O bisogna intervenire prima, con strumenti che impediscano alle violenze di arrivare al punto di non ritorno?
Le associazioni che lavorano sul campo dicono da anni la stessa cosa: bisogna investire nella prevenzione. Servono più fondi per i centri antiviolenza, programmi di educazione emotiva nelle scuole, corsi di formazione per magistrati e forze dell’ordine. Perché le leggi sono importanti, ma da sole non bastano a cambiare una cultura che ancora considera la violenza contro le donne un problema secondario. Una legge può modificare il codice penale. Ma per cambiare la realtà servono strumenti ben più profondi. E quelli, purtroppo, non si scrivono in Parlamento.