Lavoro, occhio alla cronologia: se ti beccano su questi siti finisci male | La Cassazione ha già deciso
La legge non può proteggerti se ti fai beccare su questi siti durante l’orario di lavoro: la cronologia può stanarti facilmente.
Negli ultimi anni l’uso di Internet sul posto di lavoro è diventato un argomento scottante. Con smartphone e tablet che ci seguono ovunque, è facile lasciarsi distrarre, anche durante l’orario lavorativo. E qui scatta il problema.
In Italia i numeri sono chiari: quasi 43 milioni di persone usano i social. È più del 70% della popolazione. Non c’è da stupirsi, ormai è quasi un riflesso. Dai un’occhiata a Facebook o Instagram mentre il caffè si raffredda, controlla un meme durante una pausa… siamo tutti colpevoli, in un modo o nell’altro.
Il punto, però, è capire quando questo comportamento può diventare un problema, soprattutto se accade durante le ore di lavoro. Le aziende spesso si trovano a dover tracciare una linea chiara per evitare che la produttività vada a picco.
La verità è che quando un lavoratore si distrae troppo con Internet, il rischio è dietro l’angolo. Parliamo di distrazioni che portano a violazioni contrattuali e, nei casi peggiori, a conseguenze molto più gravi.
Cosa troverai in questo articolo:
L’uso di Internet al lavoro: tra regole e limiti
La normativa italiana è chiara: durante l’orario di lavoro bisogna rispettare le regole e seguire le direttive del datore. Le policy aziendali esistono proprio per delineare ciò che è concesso e ciò che no. Certo, c’è anche chi lascia un po’ di libertà ai dipendenti, a patto che il lavoro venga svolto correttamente. Ma quando si esagera, iniziano i guai. Le aziende hanno il diritto di monitorare l’attività online, ma ovviamente con un occhio alla privacy. Nessuno vuole una sorta di “Grande Fratello” aziendale, ma neppure una totale anarchia digitale.
Le sanzioni per chi sgarra possono variare: da un semplice richiamo fino al licenziamento in casi estremi. Tutto dipende dalla gravità della violazione. Se uno si prende cinque minuti per guardare un post, forse è tollerabile. Ma se passiamo ore intere a navigare, la faccenda cambia. E le prove, come la cronologia web, possono fare la differenza. In fondo, non è che il datore di lavoro possa ignorare chi “gioca” con il tempo che dovrebbe essere dedicato al lavoro.
Il giudizio della Cassazione e i licenziamenti
La Corte di Cassazione ha già chiarito più volte il punto: se il tempo passato su Internet è sproporzionato, il licenziamento può essere legittimo. Non parliamo di casi isolati. C’è stato, per esempio, quel famoso caso del 2019, quando una dipendente è stata licenziata perché passava più tempo sui social che a lavorare. Avevano pure la cronologia del suo computer come prova. Non è una questione di rigore, ma di rispetto delle regole.
Un altro caso interessante è quello di una dipendente a Bari, che usava il cellulare aziendale per scopi personali. Il problema? Accedeva a Facebook, faceva attività non autorizzate e persino condivideva informazioni riservate. Non sorprende che il licenziamento sia stato confermato. Alla fine, la giurisprudenza tende a proteggere il datore di lavoro in queste situazioni, pur garantendo che le regole di monitoraggio rispettino la privacy. Però attenzione: basta una piccola svista per finire in una posizione scomoda.