Smartworking, il PC è più a rischio di quanto pensi: il capo ti rovina la vita con un click | Privacy azzerata

smartworking

Attività di smartworking con blocco note (Pixabay Foto) - www.managementcue.it

Con il lavoro da remoto, molte aziende hanno implementato software di monitoraggio per controllare l’attività dei propri dipendenti.

Lo smart working è stato introdotto come soluzione ideale per affrontare le difficoltà legate alla pandemia, diventando rapidamente una modalità di lavoro molto diffusa in diverse parti del mondo, compresa l’Italia. Le sue caratteristiche principali, come l’orario flessibile e la possibilità di lavorare comodamente da casa, hanno convinto molte aziende a farne uno strumento privilegiato. In effetti, eliminando la necessità di spostamenti e riducendo i costi aziendali, lo smart working sembra essere una soluzione vantaggiosa per tutti.

All’apparenza, lavorare da casa potrebbe sembrare una condizione ideale: niente traffico, più tempo per sé stessi e, soprattutto, la possibilità di organizzare la propria giornata in maniera autonoma. Gli ambienti domestici si trasformano in uffici improvvisati e, con un computer e una connessione internet, qualsiasi stanza può diventare un luogo di lavoro. Questo modello ha attratto l’attenzione sia dei lavoratori che delle aziende, dando l’impressione di una rivoluzione positiva nel mondo professionale.

Ma, come spesso accade, ogni medaglia ha il suo rovescio. Se da un lato, il lavoro agile porta con sé una serie di vantaggi, dall’altro, nasconde delle insidie. I confini tra vita privata e lavorativa diventano sempre più sfumati, e la libertà apparente di gestire il proprio tempo potrebbe nascondere nuove forme di pressione. La comodità di lavorare da casa può, in realtà, trasformarsi in una gabbia invisibile, soprattutto quando l’attenzione si sposta sul controllo della produttività.

Infatti, proprio a causa della crescente diffusione dello smart working, si è manifestato un fenomeno parallelo: l’introduzione di strumenti di sorveglianza digitale da parte dei datori di lavoro. Queste tecnologie, presentate come necessarie per monitorare il rendimento, stanno sollevando dubbi e preoccupazioni riguardo alla privacy dei dipendenti.

La sorveglianza digitale durante lo smart working

Con il passaggio al lavoro da remoto, molte aziende hanno implementato software di monitoraggio per controllare l’attività dei propri dipendenti. L’uso di app e programmi che registrano ogni movimento, dal clic del mouse alla geolocalizzazione, è ormai comune, e sta diventando una pratica sempre più diffusa anche in Italia. Questi strumenti raccolgono dati su come il lavoratore utilizza il tempo e le risorse aziendali, catalogando le attività come “produttive” o “improduttive”.

Se negli Stati Uniti la sorveglianza è spesso legalizzata, in Italia la situazione è diversa. Qui lo Statuto dei lavoratori impedisce il controllo diretto e continuativo dei dipendenti senza il loro consenso. Tuttavia, alcune aziende hanno trovato un modo per aggirare queste restrizioni grazie a interpretazioni particolari del Jobs Act, che consentono un monitoraggio più flessibile sui dispositivi aziendali, in particolare sugli smartphone e i laptop.

smartworking
Lavoro da casa (Pixabay Foto) – www.managementcue.it

Le implicazioni legali in Italia

In Italia, nonostante il divieto esplicito dello Statuto dei lavoratori, alcune imprese stanno cercando di sfruttare un vuoto normativo per introdurre forme di sorveglianza indiretta. Attraverso l’uso di software sui dispositivi aziendali, i datori di lavoro possono monitorare l’attività dei dipendenti senza incorrere in sanzioni, poiché questi strumenti sono considerati necessari per garantire la produttività. Questo, però, solleva questioni complesse, non solo in termini di privacy, ma anche di diritti dei lavoratori nell’era del lavoro agile.

Se un dipendente utilizza un computer o uno smartphone aziendale, si presume che ogni attività svolta con quel dispositivo possa essere controllata dall’azienda, facendo così emergere una zona grigia legale. Le aziende giustificano queste misure con l’obiettivo di prevenire comportamenti scorretti o improduttivi, ma il confine tra tutela degli interessi aziendali e violazione della privacy diventa sempre più sottile.