Offshoring: cos’è e quali sono le cause della delocalizzazione delle imprese
In passato molte imprese hanno deciso di attuare una strategia molto discussa: l’offshoring. La delocalizzazione delle imprese, totale o parziale, ha suscitato molti dibattiti che non si sono fermati esclusivamente al lato tecnico, strategico o economico. Spesso sono sfociati anche in ambito etico, politico e in alcuni casi anche geopolitico.
Soprattutto quando si è parlato di delocalizzazione di grandi imprese italiane, la politica ha preso in mano la questione per avere un impatto con le proprie posizioni sull’opinione pubblica. Come spesso accade in questi casi però, il tema arrivato alla popolazione è soltanto superficiale, privo di argomentazioni approfondite e concentrato esclusivamente sul lato etico-politico.
Cosa troverai in questo articolo:
Cos’è e come funziona l’offshoring
L’offshoring prese piede negli anni ’90 con la liberalizzazione dell’economia e la globalizzazione. In questo contesto, molti imprenditori si sono ritrovati a guardare non più solo al proprio Paese, limitando e concentrando in esso i maggiori investimenti (toccando di fatto l’estero solo con le esportazioni), bensì iniziarono ad avere una visione territorialmente più ampia, relativa al mercato globale.
Di fatto, si sono ritrovati davanti ad un’analisi costi-benefici: essendoci a disposizione nuovi Paesi emergenti e in via di sviluppo rispetto ai “tradizionali” Paesi occidentali (europei e statunitensi), era evidente come convenisse trasferire fasi della propria produzione in questi Paesi che riuscivano a mantenere una struttura dei costi più leggera. La Grande Recessione degli anni 2008-2011 ha fatto da effetto propulsore a questo fenomeno in quanto ha toccato molto i Paesi sviluppati e molto poco i Paesi in via di sviluppo.
I vantaggi dell’offshoring
Così facendo, l’impresa che avesse attuato la delocalizzazione si ritrovò a perseguire la strategia di leadership di costo, ovvero riusciva a mantenere nel tempo un vantaggio competitivo rispetto alle aziende non delocalizzate: il prodotto finale era in sostanza il medesimo, con le stesse caratteristiche e funzionalità, ma ad un prezzo decisamente inferiore della concorrenza. In linea di massima, l’azienda delocalizza le attività standard e a basso contenuto strategico, mentre le attività a grande valore restano perlopiù in patria per evitare flussi anche di know-how rischiosi e non controllati in territori stranieri.
In realtà, sebbene la riduzione dei costi di produzione rappresenti il primo ed indubbio vantaggio, nel tempo ne sono seguiti degli altri. Alcune imprese sono riuscite così a toccare nuovi Paesi, anche geograficamente lontani. Fino ad allora la maggior parte limitava la propria azione all’estero alla semplice esportazione, quindi nessuna delocalizzazione, nessuna filiale straniera, nessun costo sostenuto all’estero e minori costi in termini di tasse e personale qualificato per l’espansione. Di fatto, molte hanno iniziato così la loro strategia di penetrazione del mercato.
L’offshoring in Cina
Inoltre, alcune aziende hanno anche approfittato della situazione acquisendo nuove conoscenze, presenti prevalentemente nel tessuto economico del Paese estero in questione. Questo è accaduto in particolare per le aziende che delocalizzarono in Cina, le quali sono entrate in contatto con nuove conoscenze, nuovi approcci, che ne hanno ampliato la visione. Infine, un dettaglio non trascurabile è proprio lo sviluppo della Cina, il Paese più interessante al mondo in termini di sviluppo economico e tecnologico. Le aziende pioniere che delocalizzarono lì per prime sono riuscite a seguire dall’interno i vari cambiamenti e le varie innovazioni, anticipando la concorrenza e costruendo un ulteriore vantaggio diffondendo le novità anche nelle altre filiali degli altri Paesi.
I rischi dell’offshoring
Oltre al problema etico, una strategia di offshoring prevede molte sfide da affrontare. Alcune aziende che hanno attuato questa strategia nel modo errato si sono ritrovate con grandi perdite in termini di bilancio. In primis, bisognerebbe avere personale altamente qualificato che attui la strategia con un alto livello di approfondimento così da produrre stime efficaci e non disattendere le proprie aspettative, evitando fretta e superficialità ma garantendo comunque un controllo su tali attività (il caso LEGO è il controesempio più calzante).
Un calcolo opportuno deve riguardare il divario tra i costi in “patria” e tra i costi nel Paese dove si è delocalizzato: questo deve essere ampio al momento dell’inizio del processo, così da giustificare questo grande cambiamento, ma deve altresì essere monitorato nel tempo. In molti casi questo divario si è andato a ridurre tanto più quanto il Paese “ospitante” si tramutava da Paese in via di sviluppo a Paese sviluppato. In tal caso andrebbe riesaminata la situazione ed effettuata una nuova analisi costi-benefici.
Infine, la delocalizzazione porta ad un calo di controllo sulle proprie attività che, in alcuni casi, hanno portato a scandali globali, presenti su tutti i mass media, che hanno leso gravemente l’immagine del brand. Il più celebre fu lo scandalo della Nike negli anni ’90, in quanto l’azienda sportiva in alcuni dei propri stabilimenti sparsi nel mondo fu accusata di sfruttamento minorile.
Il problema etico: perché non è un problema dell’imprenditore
Come detto, molti studi hanno dimostrato come l’opinione pubblica associa immediatamente all’offshore connotati negativi quali delocalizzazione di imprese nazionali all’estero, licenziamenti e trasferimenti. Questi fattori sono indiscutibilmente veri e costituiscono un aspetto negativo se visti dalla prospettiva del Paese dove quell’azienda è cresciuta e dove quei lavoratori hanno messo su famiglia. L’errore che comunemente si fa però, è attribuire questa colpa al solo imprenditore. Salvo casi particolari dove effettivamente l’imprenditore è reo di aver compiuto atti discutibili se non direttamente illegali, in genere non è un’associazione così semplice.
Le due opzioni dell’imprenditore
Guardando la situazione da un punto di vista manageriale e semplificando un po’, l’imprenditore si ritrova in questi casi di fronte a due scelte: delocalizzare o non delocalizzare. Non sussisteva più l’opportunità di mantenere lo status quo e lasciare le cose come sempre, in quanto sono cambiati contesto e mercato e tutti gli altri competitor sono di fronte a questa scelta.
Nel caso si prenda la decisione di non delocalizzare, nel giro di poco tempo l’azienda si ritrovava a proporre nel mercato lo stesso prodotto della concorrenza ma ad un prezzo più elevato, quindi fuori dalle logiche di mercato. Anche qualora questa azienda fosse leader del settore verosimilmente non giustificherebbe l’extra-prezzo richiesto agli occhi del consumatore. Inoltre, si precludeva la possibilità di acquisire nuove conoscenze e di penetrare mercati stranieri.
A questo punto, ci si troverebbe di fronte a due ulteriori scenari. Il primo sarebbe delocalizzare tardivamente, il che significa di aver dissipato l’eventuale vantaggio che si poteva avere in precedenza, che si traduce di fatto a non essere non solo più tra i leader del settore, ma anche fortemente in ritardo. Non essendo poi peraltro i first mover nel nuovo Paese, è verosimile come le opportunità migliori in termini di sedi, fornitori, accordi e quant’altro siano già state prese dai competitor in zona, spesso con carattere di esclusività.
Il secondo scenario consisterebbe nel persistere nella non-delocalizzazione. Ciò significa che si accettava non solo di aver perso il proprio positioning nel mercato, ma si andava incontro anche ad un peggioramento progressivo ed esponenziale nel tempo. Come dimostrano le poche aziende che hanno intrapreso questa strada, questo si sarebbe tradotto in una rovina per le casse societarie. Quindi un ridimensionamento della dimensione aziendale verso il basso (se non direttamente il fallimento) e una perdita immensa in termini di fascino nel mercato e di ambizioni aziendali, che di fatto avrebbero prodotto proprio uno degli svantaggi tanto criticati dell’offshore: i licenziamenti.
La presa di coscienza della popolazione
Infine, solo negli ultimi tempi questo problema è stato assimilato anche dalla popolazione comune. Quando l’offshore prese piede, prevalentemente nelle aziende più importanti, fu come detto negli anni ’90. L’opinione pubblica dell’epoca non sapeva nemmeno l’esistenza di questo problema o comunque non lo inquadrava nella giusta dimensione. Quindi, anche qualora l’azienda avesse deciso di mantenersi entro i confini nazionali, non avrebbe assunto alcun vantaggio morale o in termini di reputazione agli occhi dei consumatori che pertanto avrebbero guardato prevalentemente il prezzo non mostrando alcuna “riconoscenza” per l’impresa.
Negli ultimi tempi, anche grazie ai crescenti dibattiti, anche il cittadino medio ha sempre più compreso, quantomeno a grandi linee, le cause, i vantaggi, gli svantaggi e le conseguenze dell’offshoring. Una volta che la maggioranza dei consumatori ha compreso ciò, si è generato un contro-movimento che alcune imprese hanno già deciso di intraprendere: il reshoring.
Le vere cause del problema etico
Com’è evidente, l’imprenditore si ritrovò di fronte semplicemente ad una delle tante scelte che un manager deve fare nel corso del tempo. Una scelta che comunque sarebbe stata decisiva e che in alcuni casi significava oscillare tra la vita e la morte dell’impresa. Fa da capro espiatorio ed è considerato il “principale colpevole” di questa decisione, ma in realtà è soggetto ad intraprendere queste azioni a causa del contesto economico, politico e geopolitico, vero responsabile di questo movimento.
La politica si è molto lamentata di questi flussi di imprese all’estero e in certi casi ha anche attaccato frontalmente il CEO di turno. In realtà, non sottolineano a sufficienza come l’assenza o il ritardo di una corretta gestione di tale materia in ambito comunitario in primis, ma anche in ambito internazionale, è la principale causa dell’offshoring. Non ci sono state regolamentazioni europee o a più ampio raggio che coinvolgessero più Paesi, in particolare proprio quelli in via di sviluppo, che producessero un concreto disincentivo alla delocalizzazione o che ne mitigassero i vantaggi.
Solo negli ultimi anni, i tempi sono diventati maturi per la presa di coscienza della popolazione, che ha iniziato a valorizzare opportunamente le aziende operanti nei confini nazionali, unita ad una pressione e attenzione maggiore dal mondo della politica. Questi possono produrre incentivi al ritorno in patria alimentando sempre più il fenomeno del reshoring aziendale.