A essere sotto accusa ancora una volta sono gli algoritmi della piattaforma, questa volta tacciati addirittura di aver contribuito a un genocidio. I rifugiati della minoranza Birmana, i Rohingya, infatti, hanno accusato il social di essere complice del Genocidio subito in Myanmar.
La risposta sintetica è che si tratta di uno dei 135 gruppi etnici che compongono il Myanmar, e che si distinguono per parlare una lingua di ceppo indoeuropeo, vicina a quella parlata in Bangladesh e per la loro appartenenza al Islam sunnita.
Da secoli i rohingya vivono in Birmania, per la precisione nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh. Ma causa delle divergenze culturali, oltre che delle differenze somatiche sono sempre stati percepiti come un corpo estraneo dai bamar l’etnia maggioritaria nel paese.
Dal 1948, anno d’indipendenza del Myanmar, i rohingya hanno sofferto diverse forme di discriminazione Sia de facto che de iure. Non dispongono ad esempio della cittadinanza, subiscono forti limitazioni alla propria libertà di movimento ed è per loro molto difficile avere accesso a servizi essenziali quali scuola e sanità.
Molti osservatori internazionali speravano che nel 2016, con l’elezione a primo ministro del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi la situazione dei rohingya e più in generale delle varie minoranze etniche del paese migliorassero, ma purtroppo così non è stato.
La situazione, come riportato dalla Corte Penale Internazionale si è progressivamente aggravata a partire dal 2016 sino a esplodere nel agosto dell’anno successivo. Il casus belli è stato l’attacco, da parte di alcune milizie appartenenti alla minoranza a tutta una serie di obbiettivi sensibili legati alla polizia e alle forze armate Birmane.
La risposta delle forze di sicurezza non si è fatta attendere ed ha interessato la popolazione rohingya nel suo complesso. I report delle Nazioni Unite in proposito parlano di omicidi di massa, stupri e villaggi bruciati, giustificati come “il tentativo di sedare una rivolta“
Gli appartenenti alla minoranza hanno quindi deciso di fuggire nel vicino Bangladesh, ammassandosi nella città di Cox’s Bazar, che adesso si trova a gestire quello che a oggi è il più grande campo profughi del mondo Kutupalong
Meta, la neonata holding proprietaria di Facebook è accusata dai rifugiati rohingya di non aver controllato i fenomeni di hate speech, In aprile il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, interrogato in proposito dai senatori statunitensi, aveva dichiarato che la compagnia avrebbe assunto dozzine di nuovi moderatori per cercare di limitare la diffusione d’odio verso la minoranza rohingya, tuttavia già un’inchiesta pubblicata da Reuters aveva messo in dubbio la reale portata delle misure adottate.
La class action dei profughi, portata avanti dagli studi legali Edelson PC and Fields PLLC compie un passo ulteriore arrivando a sostenere che il mancato controllo non sia il frutto di una negligenza, ma di un comportamento deliberato nel testo ricorso, si può infatti leggere che:
Facebook era disposto a barattare la vita del popolo rohingya per una migliore penetrazione del mercato in un piccolo paese del sud-est asiatico.
Non è la prima volta che l’azienda, e soprattutto i suoi algoritmi finiscono sotto accusa, molti ricorderanno infatti lo scandalo legato alla società Cambridge Analitica, tuttavia in questo caso le accuse sembrano estremamente più gravi, ma nel contempo anche più fragili.
Secondo Anupam Chander, professore alla Georgetown University Law Center, è molto improbabile che la causa abbia successo, Facebook potrebbe infatti avvalersi della protezione della Section 230, la legge americana che ritiene che i siti internet non siano responsabili per ciò che gli utenti scrivono su di essi.
Sempre il professore ritiene molto improbabile che un tribunale americano consenta a dei giudici stranieri di processare un’azienda statunitense, specialmente se l’azienda è già stata assolta in patria per le stesse vicende.
Immagine in copertina: “A Rohingya woman pictured at a World Food Programme food distribution supported by UK aid in Cox’s Bazar, Bangladesh, October 2017” by DFID – UK Department for International Development is licensed under CC BY 2.0