Il dipartimento di difesa degli Stati Uniti, dopo Huawei e Tik Tok, ha recentemente aggiunto anche Xiaomi alla lista nera delle compagnie cinesi accusate di avere legami con l’esercito di liberazione popolare cinese. La decisione impedisce a Xiaomi di vendere i propri prodotti negli Stati Uniti e agli investitori Statunitensi di possedere azioni di Xiaomi. Il provvedimento è un duro colpo per l’azienda, sia perché il mercato nordamericano è tra i più ricchi al mondo, sia perché gli investitori statunitensi, in particolare in questo periodo storico caratterizzato da bassi tassi di interesse, hanno un enorme disponibilità di liquidità che possono riversare nel mercato e sulle azioni di Xiaomi.
Xiaomi, diventata da poco la seconda compagnia per volumi di smartphones prodotti, dietro alla sola Samsung, è indubbiamente una delle aziende cinesi più tecnologicamente avanzate ed innovative. Proprio per queste sue capacità, è mal vista dagli organismi di difesa statunitensi che vedono in essa, e più in generale nella crescente abilità tecnologica cinese, un grave rischio per la sicurezza nazionale.
Nonostante Xiaomi sia principalmente un produttore di smartphone, è stata capace di guadagnare una significativa quota nel mercato dei dispositivi indossabili grazie alla linea di prodotti Mi Band, vendendo nel 2019 quasi 42 milioni di devices. Recentemente è poi entrata nel mercato delle “Smart Home”, offrendo prodotti per la casa come assistenti virtuali, aspirapolveri intelligenti, sensori e videocamere. Grazie ai profitti generati dai notevoli volumi di vendita di queste linee di prodotti, Xiaomi riesce ad investire ingenti somme di denaro in ricerca e sviluppo sui temi di Artificial Intelligence (AI) ed Internet of Things. Questi investimenti stanno già dando i loro frutti, e Xiaomi ha depositato ben 330 brevetti sul tema dell’intelligenza artificiale.
La decisione statunitense rientra nella recente strategia di limitare lo sviluppo tecnologico delle società cinesi, non solo per una questione di importanza economica, ma soprattutto per mantenere lo status quo geopolitico. Lo strapotere prima militare e quindi economico statunitense può essere eroso solo da una superiore capacità tecnologica cinese.
Questa ed altre politiche sino-americane, inasprite sotto la presidenza Trump, con ogni probabilità non si attenueranno con la presidenza Biden. La preoccupazione interna all’amministrazione americana riguardo alle capacità cinesi ed alla sovversione degli equilibri di potenza è andata crescendo negli ultimi anni e si focalizza principalmente sulle tecnologie di intelligenza artificiale, 5G, quantum computing, biotecnologie ed aerospazio. Ennesimo esempio lampante di questa crescente preoccupazione è che la US International Development Finance Corporation abbia firmato un accordo con il governo dell’Ecuador, che aiuterà lo stato sudamericano a ripagare miliardi di debito con la Cina e a dare un impulso alla propria economia, a patto che quest’ultimo escluda le compagnie cinesi dalla sua rete di telecomunicazioni.
A seguito della notizia, il valore azionario di Xiaomi è sceso di oltre il 10% alla borsa di Hong Kong. Il tonfo azionario è tuttavia solo una delle possibili conseguenze della decisione statunitense. Il danneggiamento della reputazione e il rischio che gli alleati statunitensi adottino lo stesso provvedimento sono motivo di grosse preoccupazioni per l’azienda cinese. Questi fattori combinati infatti, potrebbero portare a minori volumi di vendita e conseguentemente a minori profitti, fermando (temporaneamente) l’ascesa del brand.
Per tutti questi motivi, Xiaomi ha deciso di denunciare il governo degli Stati Uniti, dichiarando che il ban sia ingiusto e che nessuna giustificazione concreta sia stata fornita a supporto. Il comunicato continua poi affermando che: “il provvedimento causa danni immediati e irreparabili all’azienda”.
L’obiettivo di Xiaomi è quello di mettere pressione alla nuova amministrazione Biden, sperando che cancelli il provvedimento preso, o che quantomeno non lo aggravi come successo con Huawei, a cui è stata negata anche la possibilità di utilizzare il sistema operativo Android di proprietà di Google.
Articolo a cura di Saverio Bianco