La pandemia da Covid-19 ha portato sia a un’emergenza sanitaria, sia a un’emergenza economica. Uno dei drammi maggiori della pandemia è la perdita dei posti di lavoro, che ha riguardato tutto il nostro Paese e praticamente ogni settore presente sul mercato. A soffrire di più, però, sono ancora una volta le donne.
Alcuni dati pubblicati nella giornata di ieri evidenziano come i posti di lavoro persi dalle donne siano di più rispetto a quelli persi dagli uomini. Analizziamo i dati e cerchiamo di capire i motivi di tutto ciò.
In questo articolo, non possiamo che partire dai dati numerici che sono stati forniti, per avere un quadro più chiaro della situazione. Sono stati messi a confronto i dati del secondo trimestre del 2019 con quelli del secondo trimestre del 2020. Il risultato del confronto, mostra un –4,7% per le donne (corrispondente a 470.000 occupate in meno) contro il -2,7% per gli uomini (corrispondente a 371.000 occupati in meno). Basandoci sul totale dei posti di lavoro persi, corrispondente a 841.000, quelli relativi alle donne corrispondono al 55,9% mentre quelli relativi agli uomini al 44,1%.
Addentrandoci più nei dettagli e analizzando le tipologie contrattuali, si può notare che la maggior parte delle perdite dei posti di lavoro delle donne riguarda le lavoratrici a tempo determinato (-327.000, calo del 22,7%). Troviamo poi le lavoratrici autonome (-86.000, calo del 5,1%), le lavoratrici a tempo indeterminato (-57.000) e le lavoratrici part-time (-7,4%). Il settore dei servizi, soprattutto ricettivi e ristorativi, insieme a quello dell’assistenza domestica, risultano essere i più colpiti in quanto sono composti maggiormente da donne: il primo contiene il 50,6% di lavoratrici, il secondo l’88,1%.
Focalizziamoci ora sul tasso di attività tra le giovani donne, dato che avuto un calo in tutte e tre le fasce. La prima, che va dai 25 ai 29 anni, è passata dal 62,1% al 54,9%. Quella dai 30 ai 34 anni è passata dal 68,6% al 61,6%. L’ultima, dai 35 ai 39 anni, è passata dal 71% al 66,8%. Il calo più drastico è stato quindi riscontrato dalle più giovani, che fanno segnare un -7,2% rispetto allo scorso anno. Le donne inattive sono, inoltre, aumentate dell’8,5%, che corrisponde a 707.000 donne.
Secondo la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, la causa del fenomeno può essere ricondotta al sovraccarico di lavoro. Le donne sono state impegnate più degli uomini nelle attività lavorativa durante il lockdown, con un 74% di attività contro il 66% degli uomini, in quanto hanno continuato a garantire servizi in cui sono presenti molte lavoratrici, quali: scuola, sanità e pubblica amministrazione. D’altra parte, la chiusure delle scuole ha aggiunto al lavoro la contemporanea gestione dei figli, impegnati nella didattica a distanza. Traducendo in numeri, tutto questo corrisponde in un aumento del livello di stress per circa 3 milioni di lavoratrici con un figlio a carico di meno di 15 anni d’età, condizione che corrisponde al 30% delle occupate.
L’esperienza dello smart working, quindi, non è stata positiva delle donne proprio a causa di quanto detto precedentemente.
Il Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Rosario De Luca, ha fatto notare che nelle professioni intellettuali il 54% è donna, e ha dichiarato:
Le donne apportano un contributo rilevante all’occupazione in termini di qualificazione e competenza, che non può disperdersi ulteriormente. Per questo è necessario attuare un mix di politiche – dal potenziamento dell’offerta e dell’accessibilità dei servizi che favoriscono la conciliazione vita-lavoro a percorsi formativi spendibili nel mercato del lavoro – che sostengano concretamente l’occupabilità delle donne, arginando il rischio che molte di loro possono chiamarsi fuori dal circuito lavorativo. L’innovazione dell’organizzazione del lavoro rappresenta da questo punto di vista un obiettivo prioritario, soprattutto per consentire un nuovo e adeguato ricorso allo smart working in questa seconda fase critica della pandemia. La crisi sanitaria può essere l’opportunità per molte aziende per rivedere i propri modelli organizzativi e renderli più flessibili alle esigenze delle donne, così da poter superare quelle storiche contraddizioni che caratterizzano il lavoro femminile nel nostro Paese.