Periodo tesissimo per Facebook, anche Starbucks sospende le proprie campagne pubblicitarie sul social network più grande al mondo. Motivo? L’odio generato e “creato” sul social. Prima di lei anche Coca Cola e altre big mondiali hanno annunciato la stessa decisione.
Facebook vede 60 miliardi di dollari di valore di mercato andare in fumo in un periodo record: soli 2 giorni. La causa è ben chiara oramai, inserzionisti come Starbucks e PepsiCo bloccano la spesa sui social media di Mark Z., lasciando a casa molte decine di milioni di dollari.
Le azioni di Facebook sono scese all’incirca dell’1% lunedì, e ad oggi non si sono riprese ancora. Proprio lunedì un numero considerevole di inserzionisti ha boicottato la piattaforma più grande al mondo, cancellando tutte le campagne pubblicitarie. Il calo ha seguito una scivolata dell’8,3% venerdì nel primo round di pubblicità ritirata. Il calo delle azioni di due giorni ha comportato la cancellazione di circa 60 miliardi di dollari di valore di mercato del colosso statunitense.
Starbucks, PepsiCo, Coca-Cola, Unilever, Verizon e non solo, hanno tutti sospeso la loro pubblicità su Facebook e, in alcuni casi, su altre piattaforme di social media.
Ma come si è giunti ai grandi nomi dell’industria mondiale? Partendo proprio dalle piccole aziende che hanno iniziato questa sorta di “sciopero”. All’inizio erano loro, decine di aziende locali, immaginiamo solo quante ce ne siano su Facebook. Tutti accomunati dalla delusione di un mondo social intrinseco di odio e razzismo. Dove denunciare è simbolo di debolezza. Dove si ride e si scherza per qualsiasi disgrazia, senza una vera etica. Da qui è partito tutto. Basti pensare alle ultime polemiche negli USA in seguito alla morte di George Floyd (episodio oramai noto ed in continua evoluzione).
La campagna è stata soprannominata ‘Stop Hate for Profit’, e qui si sono iniziate ad unire tantissimi grandi nomi dei mercati mondiali come Unilever, Verizon, Honda, Levi Strauss, North Face, Patagonia, fino all’adesione della multinazionale delle multinazionali, la Coca Cola. Oggi tocca a Starbucks. Domani?
Sia chiaro, probabilmente, questa protesta non danneggerà Facebook in modo irreparabile, ma è un inizio di indottrinamento etico anche per le aziende che, a questo punto, si pongono vicine al consumatore non solo dal punto di vista ambientale (solito), ma anche ideologico. Strategia di marketing? Forse, ma questa volta risulterà utile nella sensibilizzazione dell’utente a contatto con l’azienda. Facebook ricordiamo, ha oltre 8 milioni di inserzionisti, un numero davvero considerevole.
E’ pur vero che le aziende in questione spendono tantissimi soldi in promozione pubblicitaria. Qualche numero: Coca Cola e Verizon hanno speso in advertising social oltre 22 miliardi di dollari lo scorso anno, Unilever oltre 42 milioni, Honda America 6 milioni, e così via. Un colpo che lascia presagire una pronta mossa da parte di Facebook.
Mark Zuckerberg, il CEO di Facebook, per tamponare al problema sorto, ha dichiarato che Facebook si darà da fare. Nuova stretta ai contenuti pieni d’odio e, soprattutto, inizierà a ‘etichettare’ e segnalare tutti i post che includono informazioni legate alle elezioni con un link, per far si che gli utenti possano verificare se ci si trova davanti a fake news o meno.
Starbucks ha dichiarato che “continuerà le discussioni internamente, con i nostri media partner e con le organizzazioni per i diritti civili nello sforzo di fermare la diffusione del discorso di odio”.
La mission aziendale di Facebook è “dare alle persone il potere di costruire comunità e avvicinare il mondo”. Ma negli ultimi mesi, è stato esattamente il contrario come si legge su molti giornali (soprattutto statunitensi, dove la protesta è molto accesa). Secondo molti ha contribuito a seminare divisione e discordia nel mondo.
Il 17 giugno, una coalizione composta da Color Of Change, NAACP, ADL, Sleeping Giants, Free Press e Common Sense Media ha invitato gli inserzionisti di Facebook a mettere in pausa la spesa pubblicitaria su Facebook e Instagram per il mese di luglio 2020. Tutto questo per chiedere a Facebook di affrontare il razzismo. Il tutto p iniziato proprio attraverso le loro piattaforme tramite la campagna Stop Hate for Profit. Come afferma il sito Web di Color of Change: “Facebook ha rifiutato di assumersi la responsabilità dell’odio, del pregiudizio e della discriminazione che crescono sulle piattaforme del gruppo mondiale. Ricordiamo che sono $ 70 miliardi di entrate generati dalle aziende ogni anno. Le aziende possono scegliere se vogliono che le loro attività siano presenti sulle piattaforme di Facebook insieme agli attacchi razzisti contro i neri”. Durissimo attacco.
Altri esempi di adesione. “Patagonia è orgogliosa di unirsi alla campagna Stop Hate for Profit. Rimuoveremo le nostre inserzioni pubblicitarie da Facebook e Instagram immediatamente e porteremo avanti il boicottaggio almeno fino alla fine di luglio”, come ci comunica l’azienda leader mondiale nell’abbigliamento sportivo su Twitter. North Face ha fatto lo stesso, sottolineando che non tornerà sul social fino a quando Facebook non metterà in atto politiche più restrittive per impedire la circolazione dell’odio in rete.
Facebook ha subito anche un duro colpo da chi, invece, si è assunto le proprie responsabilità, fino a segnalare e bloccare alcuni contenuti del potentissimo Donald Trump, in quanto fomentatori di odio e violenza.
Il topic è ad ampio raggio e difficile da tenere a freno. Il tema è molto delicato poi. Gli eventi recenti mostrano al mondo la necessità di una nuova etica, anche a livello aziendale. Un freno ai contenuti d’odio, razzismo e delinquenza è il primo passo. Molti di questi, vengono proprio dai politici, in tutto il mondo, non solo nel Bel Paese. Introdurre forme di censura, però, può indurre l’effetto opposto. La necessità di trovare un punto di mediazione tra la libertà di espressione e il rispetto delle persone è sicuramente una delle sfide più importanti che i legislatori contemporanei devono affrontare. L’avvento dei social ha cambiato profondamente lo scenario mediatico e l’unica cosa certa è che non si può restare con un sistema di norme disegnato prima della rivoluzione digitale.