Cosa sono i dark patterns? Vi è mai capitato di arrivare al momento del pagamento di un acquisto online e notare che state per pagare 2 euro in più per una tassa, per la spedizione o per un servizio di assicurazione sul prodotto? Vi è mai capitato di provare ad annullare l’iscrizione a un servizio online con scarsi risultati? Nel primo caso non è difficile immaginare che la piccola spesa extra sia stata aggiunta di proposito al vostro carrello. Nel secondo caso, invece, avrete supposto in buona fede l’incompetenza del UX designer – ovvero colui che ha progettato la user experience, l’esperienza del consumatore. E se vi dicessi che sono entrambi dark patterns?
L’espressione “dark patterns” è stata coniata nel 2010 da Harry Brignull (UX designer), che è stato anche il primo a classificare sistematicamente i dark patterns su un sito da lui creato, darkpatterns.org. Ormai pratica diffusa e consolidata del design di UI (user interface) e UX (user experience), i dark patterns sono su una linea sottile tra strategie di online marketing e trucchi scorretti (al limite dell’inganno). I dark pattern si basano su studi di scienza cognitiva e abitudini del comportamento umano, nella maggior parte dei casi sono in una zona grigia normativa e, pur non essendo etici, non sono illegali. Hanno l’obiettivo di vendere servizi/prodotti aggiuntivi, indurre i consumatori a sottoscrivere abbonamenti e/o renderne molto complessa la disdetta, indurre gli utenti a cedere più dati di quanto mediamente vorrebbero. La pratica è talmente diffusa che i siti e le compagnie che li usano coprono uno spettro che va dai siti più piccoli e loschi fino ai colossi digitali di social network ed e-commerce più famosi.
Di seguito troverete una lista dei dark patterns più comuni:
Questo “trucco” è uno dei più comuni e consiste nel fornire una prova gratuita del servizio richiedendo di inserire al momento della registrazione gli estremi della propria carta di credito. Al termine del periodo di prova la sottoscrizione si rinnova automaticamente addebitando il costo dell’abbonamento. In sintesi: sottoscrivete una prova gratuita e dopo un paio di mesi vi ritrovate con un abbonamento che avevate dimenticato di avere e qualche decina di euro in meno sul conto. Vi ricorda, per caso, un famoso servizio di streaming o l’abbonamento prime di un sito di e-commerce?
Il nome indica una trappola per scarafaggi, un percorso in cui è molto facile entrare e molto difficile uscire. Spesso usato in combo con il precedente, questo dark pattern consiste nel progettare il percorso online dell’utente in modo da rendere molto semplice sottoscrivere un servizio e molto difficile recedere. Vi ricordate di quando avete dovuto minacciare il call center del vostro operatore telefonico per farvi rimborsare € 5? Si, parlo dei € 5 che vi erano stati addebitati per un servizio che avete attivato cliccando un banner per sbaglio da smartphone…
Forse uno dei più simpatici (o meno antipatici), invece, è il “confirm shaming”. Il confirm shaming consiste nel provare a suscitare un senso di colpa nell’utente che rinuncia a un servizio o che declina un’offerta. (si veda l’immagine sotto)
Classificati da darkpatterns.org come due dark patterns diversi, in realtà sono molto simili. Il primo consiste nel mostrare all’ultimo step di un acquisto online dei costi che prima non erano visibili, come ad esempio tasse o costi di spedizione. Il secondo, invece, consiste nell’aggiungere al carrello dei servizi/prodotti extra come, ad esempio, un’assicurazione per dei biglietti oppure un piccolo servizio in abbonamento per agevolazioni sui prossimi acquisti. In entrambi i casi si tratta di un costo molto piccolo che, da un lato rischia di non essere notato dall’acquirente, dall’altro non influenza il prezzo al punto da disincentivare l’acquisto.
Usato nelle televendite in tempi non sospetti, questo stratagemma consiste nel suscitare un senso di urgenza nell’acquirente. Spesso, nel cercare prezzi di voli o hotel, ci si imbatte in messaggi che mostrano quanti utenti hanno già prenotato o quanti posti sono ancora disponibili, creando la sensazione che si stia per perdere un’occasione. In generale, in molti siti in cui si possono effettuare acquisti viene mostrato un tempo limite entro il quale ultimare l’acquisto, creando un senso di urgenza nel consumatore.
Esistono molti dark patterns che si basano su gesti compiuti meccanicamente dagli utenti, ad esempio, per proseguire in una determinata operazione, salvo poi mostrare un pop up diverso da quello abituale e indurre così gli utenti a compiere azioni involontariamente (bait and switch). Altri dark pattern si basano su una UI ingannevole: ad esempio si rende difficile capire quale sia il punto da cliccare per chiudere un pop up senza eseguire operazioni, ma si mette ben in evidenza, al centro e con colori sgargianti, il modo per chiudere il pop up inserendo il proprio indirizzo e-mail oppure consentendo l’accesso in misura maggiore ai propri dati. Sempre parlando di user interface ingannevole, alcuni annunci sono disegnati per somigliare altri tipi di contenuti di navigazione e, quindi, indurre gli utenti a cliccarci sopra (Disguised Ads). Non menzioneremo affatto, infine, i dark pattern che siano già vietati dalle norme esistenti.
Soprassedendo sulla questione etica e di tutela dei consumatori, i dark pattern possono portare risultati sul breve periodo in termini di traffico, conversione e fatturato. Sul lungo periodo, invece, è abbastanza lecito supporre che i dark pattern – quantomeno quelli più palesi – abbiano un effetto deleterio in termini di fidelizzazione degli utenti/consumatori. Nonostante gli sforzi in tal senso, il mondo digitale ha ancora molti vuoti normativi, resta quindi in capo agli utenti la responsabilità di riconoscere i dark patterns e decidere se “abboccare” o meno. Alle aziende, invece, rimane la responsabilità di decidere se l’uso di questi schemi sia eticamente accettabile e se questi potranno portare benefici strategici.