Servizi pubblici: chi e come fissa il prezzo?

I servizi pubblici sono servizi di interesse collettivo come istruzione, sanità, comunicazioni, trasporti, distribuzione di energia elettrica e di gas. Servizi per cui la domanda è rigida: se aumenta il loro prezzo, la domanda non diminuisce essendo di fondamentale importanza per il benessere collettivo, essenziali. Quando questi servizi sono erogati da imprese in monopolio naturale sorge un problema: chi controlla che i prezzi non aumentino a dismisura a svantaggio degli utenti finali?

Il monopolio naturale si verifica quando i costi sostenuti da una sola impresa nel produrre l’intera quantità domandata sono inferiori a quelli che sosterrebbero più imprese contemporaneamente presenti sul mercato. I principali esempi di monopolio naturale sono nell’ambito delle infrastrutture: rete ferroviaria, stradale, autostradale, di distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica e del gas. Poiché in un monopolio i prezzi non si abbassano “spontaneamente”, sorge il bisogno di un meccanismo di controllo dei prezzi dei servizi pubblici essenziali. Ed è qui che subentra la regolamentazione dello Stato che interviene (tramite autorità pubbliche indipendenti come le Indipendent Regulatory Agencies) per garantire a tutti la possibilità di usufruire di tali servizi.

Ma come fa lo Stato ad esercitare tale controllo? Non può obbligare un’impresa privata, in monopolio, a comportarsi come se fosse in regime di perfetta concorrenza: ciò le farebbe ottenere un profitto negativo. E anche se l’impresa fosse pubblica, sarebbe difficile incentivare la concorrenza, perché diminuirebbero i profitti e di conseguenza le “entrate” dello Stato.

Così, nella teoria economica, la situazione più vicina alla perfetta concorrenza, che non conduce a un profitto negativo, è la cosiddetta soluzione di second best: il prezzo diventa “una via di mezzo” tra il prezzo di monopolio e il prezzo di perfetta concorrenza. Nella pratica però, i principali metodi applicati sono due e mirano a incentivare le imprese a perseguire comportamenti virtuosi. A seguire, i principali vantaggi e svantaggi di entrambi i metodi.

Il rate of return (ROR) parte dal presupposto che non è sufficiente mantenere l’integrità finanziaria di breve periodo ma bisogna predisporre l’impresa per gli investimenti di lungo periodo. Lo Stato stabilisce un limite sul livello di ritorno degli investimenti che l’impresa può avere: fa sì che i prezzi siano tali da generare ricavi sufficienti a coprire i costi operativi stimati dall’impresa e garantire un ragionevole tasso di profitto. Poiché i prezzi sono scelti seguendo la regola “ricavi = costi”, l’impresa non ha incentivo a diminuire i propri costi; qualora lo facesse, l’anno successivo, lo Stato la “premierebbe” abbassando il limite massimo che essa può guadagnare. Così, le imprese non ottengono alcun beneficio da guadagni di efficienza e sono portate a “gonfiare” le stime dei loro costi per l’anno successivo, ad aumentare gli investimenti con lo scopo di ottenere profitti più elevati. Sicuramente, investendo molto, vi è un forte incentivo ad aumentare la qualità dei servizi pubblici ma così facendo, i costi gonfiati delle imprese, gravano sullo Stato e di conseguenza sugli utenti finali!

L’inadeguatezza del ROR ha portato all’adozione del price cap. L’idea di base è dare un “tetto” massimo ai prezzi (non ai profitti). È un metodo più flessibile: l’impresa può scegliere i prezzi che preferisce col vincolo di rispettare un limite imposto dallo Stato: adeguarli all’inflazione e all’aumento di produttività. Infatti, se è vero che i suoi costi generali sono, possibilmente, aumentati negli anni a causa dell’inflazione, è pur vero che la crescita dell’innovazione tecnologica, conseguita negli anni, ha fatto diminuire i suoi costi di produzione. Lo Stato, quindi, tiene conto dell’inflazione ma scala i prezzi di un fattore x pari all’aumento di produttività conseguito, trasferendo l’effetto dell’innovazione a beneficio del consumatore. Questo meccanismo incentiva l’efficienza: l’impresa potrà trattenere i guadagni derivanti da riduzioni di costo; il detto “better than x” sottolinea l’incentivo a “battere” la x ovvero a portare i costi sotto il limite x fissato dallo Stato per poter trattenere più profitti possibili. Anche qui, un palese svantaggio: un’impresa che mira ad abbassare i costi, difficilmente potrà puntare anche alla qualità del servizio; quest’ultima ha un costo elevato ed eroderebbe tutto il profitto guadagnato con l’efficienza!

Il price cap, proposto per la prima volta per la regolamentazione delle Telecomunicazioni in USA e GB, è attualmente in uso anche in Italia e in genere, nei paesi più industrializzati.

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Chiara Maggio